attività

suggestioni di quello che facciamo…

Censimenti e ricognizioni

Volteggiare, distinguere, puntualizzare.

Impianto di archivi correnti, di deposito, storici

Pensarsi, trasumanar, organizzar.

Elenchi di consistenza, elenchi di scarto, guide, inventari topografici

Brancolare, elencare, sovvenire.

Schedatura, riordinamento e inventariazione di archivi storici

Ricostruire, sintonizzare, rappresentare.

Elaborazione di titolari di classificazione e di piani di conservazione

Preoccuparsi, prestabilire, prevenire.

Formazione su archivi correnti e storici

Affidare, scatenare, concimare.

Realizzazione di repertori di fonti

Estrarre, inanellare, sgorgare.

Ricerche genealogiche

Ripercorrere, srotolare, scavare.

Cura di prodotti editoriali archivistici

Raccogliere, limare, perfezionare.

Migrazione di dati

Accompagnare, garantire, salutare.

Software e sistemi informativi

Inventare, trasferire, modellare.

Progettazione e creazione di siti web in ambito archivistico

Cucinare, condire, servire.

Progettazione e realizzazione di interventi di digitalizzazione e di dematerializzazione

Moltiplicare, appiattire, illudere.

Assistenza di sala studio

Mediare, esaltare, sorridere.

Movimentazione di archivi

Accompagnare, pilotare, accudire.

Redazione di progetti finalizzati alla ricerca di finanziamenti

Accendere, insistere, convincere.

Organizzazione di biblioteche e attività di catalogazione

Calamitare, condensare, tracimare.

Mostre documentarie

Titillare, stuzzicare, solleticare.

La moralizzazione dell’Urbe e de tutt’Italia insieme, er concetto d’una maggiore austerità civile, si apriva allora la strada.
Se po dì, anzi, che procedeva a gran passi. Delitti e storie sporche ereno scappati via pe sempre da la terra d’Ausonia, come un brutto insogno che se la squaja. Furti, cortellate, puttanate, ruffianate, rapina, cocaina, vetriolo, veleno de tossico d’arsenico per acchiappà li sorci, aborti manu armata, glorie de lenoni e de bari, giovenotti che se fanno pagà er vermutte da una donna, che ve pare? la divina terra d’Ausonia manco s’aricordava più che robba fusse.
Relitti d’un’epoca andata al nulla, con le sue frivolezze e le sue «frasi», e i suoi preservativi, e le sue cazzuole massoniche. Il coltello, in quegli anni, il vecchio coltello d’ogni maramalduccio e d’ogni, guappo ‘e malu culori, – o bberbante o ttraddetori, – l’arma de’ tortuosi chiassetti, de’ pisciosi vicoletti, pareva davvero che fusse sparito di scena pe nun tornacce mai più: salvoché di sulla panza delli eroi funebri, dove si esibiva, ora, estromesso in gloria, come un genitale nichelato, argentato. Vigeva ora il vigor nuovo del Mascellone, Testa di Morto in bombetta, poi Emiro col fez, e col pennacchio, e la nuova castità della baronessa Malacianca-Fasulli, la nuova legge delle verghe a fascio. Pensare che ce fossero dei ladri, a Roma, ora? Co quer gallinaccio co la faccia fanatica a Palazzo Chiggi? Cor Federzoni che voleva carcerà pe forza tutti li storcioni de lungotevere? o quanno che se sbaciucchiaveno ar cinema? tutti li cani in fregola de la Lungara? Cor Papa milanese e co l’Anno Santo de du anni prima? E co li sposi novelli? Co li polli novelli a scarpinà pe tutta Roma?

(Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, 1957)

Più invecchio anch’io, più mi accorgo che l’infanzia e la vecchiaia non solo si ricongiungono, ma sono i due stati più profondi in cui ci è dato vivere. In essi si rivela la vera essenza di un individuo, prima o dopo gli sforzi, le aspirazioni, le ambizioni di una vita. Il viso liscio di Michel bambino e quello inciso al bulino di Michel vecchio si somigliano, ciò che non sempre accade con i visi intermedi della giovinezza e della maturità. Gli occhi del fanciullo e quelli del vecchio guardano con il tranquillo candore di chi non è ancora entrato nel ballo mascherato oppure ne è già uscito. E tutto l’intervallo sembra un vano tumulto, un’agitazione a vuoto, un inutile caos per il quale ci si chiede perché si è dovuti passare.

(Marguerite Yourcenar, Archivi del Nord, 1977)

Madamina, il catalogo è questo
delle belle che amò il padron mio;
un catalogo egli è che ho fatt’io.
Osservate, leggete con me.

In Italia seicento e quaranta,
in Almagna duecento e trentuna,
cento in Francia, in Turchia novantuna,
ma in Ispagna son già mille e tre!

V’han fra queste contadine,
cameriere e cittadine,
v’han contesse, baronesse,
marchesane, principesse,
e v’han donne d’ogni grado,
d’ogni forma, d’ogni età.

In Italia seicento e quaranta,
in Almagna duecento e trentuna,
cento in Francia, in Turchia novantuna,
ma in Ispagna son già mille e tre!

Nella bionda egli ha l’usanza
di lodar la gentilezza,
nella bruna la costanza,
nella bianca la dolcezza.
Vuol d’inverno la grassotta,
vuol d’estate la magrotta;
è la grande maestosa,
la piccina è ognor vezzosa…

Delle vecchie fa conquista
pel piacer di porle in lista:
sua passion predominante
è la giovin principiante.
Non si picca se sia ricca,
se sia brutta, se sia bella;
purché porti la gonnella,
voi sapete quel che fa!

(Lorenzo Da Ponte, libretto per il Don Giovanni di W.A. Mozart, 1787,
atto I, scena V)

Ci sono mestieri che distruggono e altri che conservano.
Fra quelli che conservano meglio, per un naturale compenso, sono appunto i mestieri che consistono nel conservare qualcosa: documenti, libri, opere d’arte, istituti, istituzioni, tradizioni. È esperienza comune che i bibliotecari, i guardiani dei musei, i sagrestani, i bidelli, gli archivisti, non soltanto sono longevi, ma conservano se stessi per decenni senza visibili alterazioni.

(Primo Levi, Versamina, in Storie naturali, 1966)

Voglio che tu apra un nuovo dossier, – le rispose, – prima di andar via dall’ufficio. Fair Play for Cuba. In una bella cartelletta rosa.
E che cosa ci metto dentro, nel dossier?
Quando apri un dossier, Delphine, è solo questione di tempo e il materiale ci piove dentro. Appunti, elenchi, foto, chiacchiere. Tutti i frammenti e le briciole e i sussurri del mondo che non hanno una vita finché qualcuno non arriva a raccoglierli. Sta tutto lì, ad aspettare soltanto te.

(Don DeLillo, Libra, 1988)

Ehi, professore, tu l’hai mai fatto un lavoro vero, cioè, mica insegnare, dico un lavoro vero?
Ma scherzi? E tu insegnare come lo chiami? Guardati intorno e chiediti se ti piacerebbe venire qui tutte le mattine ad affrontare voi. Voi. Insegnare è più difficile che lavorare al porto e ai magazzini. Quanti di voi hanno un parente che lavora sui moli?
Mezza classe, per la maggior parte italiani, qualche irlandese.
Prima di venire in questa scuola, raccontai alla classe, ho fatto lo scaricatore sui moli di Manhattan, di Hoboken e di Brooklyn. Un ragazzo disse che suo padre mi conosceva dai tempi di Hoboken.

(Frank McCourt, Teacher Man, trad. it. Ehi, prof!, 2005)

Un solo rudere, sogno di un arco,
di una volta romana o romanica,
in un prato dove schiumeggia un sole
il cui calore è calmo come un mare:
lì ridotto, il rudere è senza amore. Uso
e liturgia, ora profondamente estinti,
vivono nel suo stile – e nel sole –
per chi ne comprenda presenza e poesia.
Fai pochi passi, e sei sull’Appia
o sulla Tuscolana: lì tutto è vita,
per tutti. Anzi, meglio è complice
di quella vita chi stile e storia
non ne sa. I suoi significati
si scambiano nella sordida pace
indifferenza e violenza. Migliaia,
migliaia di persone, pulcinella
d’una modernità di fuoco, nel sole
il cui significato è anch’esso in atto,
si incrociano pullulando scure
sugli accecanti marciapiedi, contro
l’INA-Case sprofondate nel cielo.
Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle Chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
dimenticati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l’Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io assisto, per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno d’ogni moderno
a cercare fratelli che non sono più.

(Pier Paolo Pasolini, 10 giugno 1962, in Poesia in forma di rosa, 1964)

Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda
e i suoi fratelli, Giuda generò Fares e Zara da Tamar, Fares generò Esrom,
Esrom generò Aram, Aram generò Aminadàb, Aminadàb generò Naassòn,
Naassòn generò Salmon, Salmon generò Booz da Racab,
Booz generò Obed da Rut, Obed generò Iesse, Iesse generò il re Davide.
Davide generò Salomone da quella che era stata la moglie di Uria,
Salomone generò Roboamo, Roboamo generò Abia, Abia generò Asaf,
Asaf generò Giòsafat, Giòsafat generò Ioram, Ioram generò Ozia,
Ozia generò Ioatàm, Ioatàm generò Acaz, Acaz generò Ezechia,
Ezechia generò Manasse, Manasse generò Amos, Amos generò Giosia,
Giosia generò Ieconia e i suoi fratelli,
al tempo della deportazione in Babilonia.
Dopo la deportazione in Babilonia, Ieconia generò Salatièl,
Salatièl generò Zorobabele, Zorobabele generò Abiùd,
Abiùd generò Eliachìm, Eliachìm generò Azor, Azor generò Sadoc,
Sadoc generò Achim, Achim generò Eliùd, Eliùd generò Eleazar,
Eleazar generò Mattan, Mattan generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo.
In tal modo, tutte le generazioni da Abramo a Davide sono quattordici,
da Davide fino alla deportazione in Babilonia quattordici,
dalla deportazione in Babilonia a Cristo quattordici.

(Vangelo di Matteo, 1, 1-16)

Il venticinque settembre milleduecentosessantaquattro sul far del giorno, il Duca d’Auge sali in cima al torrione del suo castello per considerare un momentino la situazione storica. La trovò poco chiara. Resti del passato alla rinfusa si trascinavano ancora qua e là. Sulle rive del vicino rivo erano accampati un Unno o due; poco distante un Gallo, forse Edueno, immergeva audacemente i piedi nella fresca corrente. Si disegnavano all’orizzonte le sagome sfatte di qualche diritto Romano, gran Saraceno, vecchio Franco, ignoto Vandalo. I Normanni bevevan calvadòs.
Il Duca d’Auge sospirò pur senza interrompere l’attento esame di quei fenomeni consunti.
Gli Unni cucinavano bistecche alla tartara, i Gaulois fumavano gitanes, i Romani disegnavano greche, i Franchi suonavano lire, i Saracineschi chiudevano persiane. I Normanni bevevan calvadòs.
– Tutta questa storia, – disse il Duca d’Auge al Duca d’Auge, – tutta questa storia per un po’ di giochi di parole, per un po’ d’anacronismi: una miseria. Non si trova mai via d’uscita?

(Raymond Queneau, I fiori blu, 1965, trad.it. di Italo Calvino, 1967)

Settembre, andiamo. È tempo di migrare.
Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori
lascian gli stazzi e vanno verso il mare:
scendono all’Adriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei monti.

Han bevuto profondamente ai fonti
alpestri, che sapor d’acqua natía
rimanga ne’ cuori esuli a conforto,
che lungo illuda la lor sete in via.
Rinnovato hanno verga d’avellano.

E vanno pel tratturo antico al piano,
quasi per un erbal fiume silente,
su le vestigia degli antichi padri.
O voce di colui che primamente
conosce il tremolar della marina!

Ora lungh’esso il litoral cammina
la greggia. Senza mutamento è l’aria.
Il sole imbionda sì la viva lana
che quasi dalla sabbia non divaria.
Isciacquío, calpestío, dolci romori.

Ah perché non son io co’ miei pastori?

(Gabriele d’Annunzio, I pastori, 1903)

Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendìa si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito. Tutti gli anni, verso il mese di marzo, una famiglia di zingari cenciosi piantava la tenda vicino al villaggio, e con grande frastuono di zufoli e tamburi faceva conoscere le nuove invenzioni. Prima portarono la calamita. Uno zingaro corpulento, con barba arruffata e mani di passero, che si presentò col nome di Melquìades, diede una truculenta manifestazione pubblica di quella che egli stesso chiamava l’ottava meraviglia dei savi alchimisti della Macedonia. Andò di casa in casa trascinando due lingotti metallici, e tutti sbigottirono vedendo che i paioli, le padelle, le molle del focolare e i treppiedi cadevano dal loro posto, e i legni scricchiolavano per la disperazione dei chiodi e delle viti che cercavano di schiavarsi, e perfino gli oggetti perduti da molto tempo ricomparivano dove pur erano stati lungamente cercati, e si trascinavano in turbolenta sbrancata dietro ai ferri magici di Melquìades. “Le cose hanno vita propria,” proclamava lo zingaro con aspro accento, “si tratta soltanto di risvegliargli l’anima.” José Arcadio Buendìa, la cui smisurata immaginazione andava sempre più lontano dell’ingegno della natura, e ancora più in là del miracolo e della magia, pensò che era possibile servirsi di quella invenzione inutile per sviscerare l’oro della terra. Melquìades, che era un uomo onesto, lo prevenne: “Per quello non serve.” Ma a quel tempo José Arcadio Buendìa non credeva nell’onestà degli zingari, e così barattò il suo mulo e una partita di capri coi due lingotti calamitati.

(Gabriel Garcìa Màrquez, Cento anni di solitudine, 1967)

Il raggiuneri era clienti bituali, ‘n omo sicco sicco, squasi novantino, ed era accanosciuto come la memoria del paìsi e dei sò bitanti, essenno stato per anni e anni ‘mpiegato al municipio.
Montalbano s’accostò al tavolo del raggiuneri.
“Permette?”
“Ehm, ehm” fici l’autro.
E Montalbano s’assittò.
Il silenzio tra il commissario e il sò commensali durò fino a doppo che Enzo ebbi pigliate le ordinazioni.
Po’ Montalbano, tanticchia per cortesia e tanticchia pirchì gli era vinuto ‘n menti un pinsero, raprì la vucca, contravvenendo alla rigorosa liggi del silenzio duranti la mangiatina.
“Mi scusi, ragioniere, ma oggi dovrei fare un sopralluogo in quella che è stata la villa dei Sabatello. Lei sa esattamente dove si trova?”
“Certo” fici Butera, ma non aggiungì autro. Si vidi che per aviri la risposta completa abbisognava parlari con il raggiuneri usanno la logica del computer, spicificanno ‘na dimanna appresso all’autra per ottiniri ‘na risposta completa.
“Potrebbe indicarmi dove si trova?”
“Sì” e fici ‘na pausa.
Montalbano si scantò che aviva formulato mali la dimanna e perciò il computer non avrebbi arrispunnuto. Ma per fortuna quello continuò.

(Andrea Camilleri, La rete di protezione, 2017)

Anche nel caso di una riproduzione altamente perfezionata, manca un elemento: l’hic et nunc dell’opera d’arte – la sua esistenza unica è irripetibile nel luogo in cui si trova. Ma proprio su questa esistenza, e in null’altro, si è attuata la storia a cui essa è stata sottoposta nel corso del suo durare. In quest’ambito rientrano sia le modificazioni che essa ha subito nella sua struttura fisica nel corso del tempo, sia i mutevoli rapporti di proprietà in cui può essersi venuta a trovare. La traccia delle prime può essere reperita soltanto attraverso analisi chimiche o fisiche che non possono venir eseguite sulla riproduzione; quella dei secondi è oggetto di una tradizione la cui ricostruzione deve procedere dalla sede dell’originale.

L’hic et nunc dell’originale costituisce il concetto della sua autenticità. Analisi di genere chimico della patina di un bronzo possono essere necessarie per la constatazione della sua autenticità; corrispondentemente, la dimostrazione del fatto che un certo codice medievale proviene da un archivio del secolo XV può essere necessaria per stabilirne l’autenticità. L’intiero ambito dell’autenticità si sottrae alla riproducibilità tecnica – e naturalmente non di quella tecnica soltanto. Ma mentre l’autentico mantiene la sua piena autorità di fronte alla riproduzione manuale, che di regola viene da esso bollata come un falso, ciò non accade nel caso della riproduzione tecnica. Essa può, per esempio mediante la fotografia, rilevare aspetti dell’originale che sono accessibili soltanto all’obiettivo, che è spostabile e in grado di scegliere a piacimento il suo punto di vista, ma non all’occhio umano, oppure, con l’aiuto di certi procedimenti, come l’ingrandimento o la ripresa al rallentatore, può cogliere immagini che si sottraggono interamente all’ottica naturale. È questo il primo punto. Essa può inoltre introdurre la riproduzione dell’originale in situazioni che all’originale stesso non sono accessibili. In particolare, gli permette di andare incontro al fruitore, nella forma della fotografia oppure del disco. La cattedrale abbandona la sua ubicazione per essere accolta nello studio di un amatore d’arte; il coro che è stato eseguito in un auditorio oppure all’aria aperta può venir ascoltato in una camera.

(Walter Benjamin, Premessa a L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1955)

Carissimo, la scuola popolare di San Donato ha pensato di organizzare per te una serie di lezioni sul problema del diritto.
Questa parola ti parrà forse poco interessante, ma invece se ci pensi è un argomento, che ti ha appassionato mille volte: […] mille volte hai usato dei tuoi diritti, quando dici mio, passi per un viottolo, denunci chi ti ha danneggiato, riscuoti un salario o una pensione o godi delle tue ferie, chiudi la porta della tua casa, scapaccioni il tuo fratellino.

(don Lorenzo Milani, Invito alla popolazione di Calenzano per la scuola serale, 25 ottobre 1949)

E di nuovo cambio casa di nuovo cambiano le cose
E di nuovo cambio luna e quartiere
Come cambia l’orizzonte, il tempo, il modo di vedere
Cambio posto e chiedo scusa ma qui non c’e’ nessuno come me

E stasera do a lavare il mio vestito per l’amore
Cambio donna e cambio umore stasera
E stasera voglio uscire che mi facciano parlare
Voglio ridere voglio bere, io stasera cambio amore, tutto qui

Ma sapere dove andare è come sapere cosa dire
Come sapere dove mettere le mani
Io non so nemmeno se ho capito quando t’ho perduta
Qui fioriscono le rose ma dentro casa è inverno e fuori no

E vendo casa per un motore la soluzione è la migliore
Un motore certamente può attirare
La mia fantasia un po danneggiata da troppo tempo parcheggiata
E poi cambiare casa come cambiano le cose cosi’

E gira gira gira gira si torna ancora in primavera
E mi trova che non ho concluso niente
Io l’amore l’avevo in mente ma ho conosciuto solo gente
E posso solo andare avanti fintanto che nessuno è come me

E gira gira gira gira si torna ancora a primavera
E scopro che non ho capito niente
E allora io stasera do a lavare il mio vestito per l’amore
Cambio donna e cambio umore cambio numero e quartiere
Fintanto che nessuno è con me

(Ivano Fossati, E di nuovo cambio casa, in La mia banda suona il rock, 1979)

«Mister Lehman, una banca di primo piano
quale voi siete
non può non osservare con attenzione
gli incassi a sette zeri del settore crociere:
noi offriamo a clienti di ogni fascia sociale
la sistemazione – ovviamente distinta su
transatlantici di livello eccezionale
in cui niente è lasciato al caso
dai pomelli delle porte
alla livrea dell’ultimo cameriere
e si servono vassoi d’aragoste
inondate di vino francese e di caviale.
Il mondo moderno è in rapida espansione
e voi ne siete il motore, Mister Lehman:
ora che avete messo la vostra bandiera
sui più remoti anfratti degli Stati Uniti,
rinuncereste, vi chiedo, a domare gli oceani?
Il nome di una banca non è inchiostro
e si può scrivere perfino sull’acqua.
Mi sto forse sbagliando? Non vi pentirete
finanziando la mia Gerusalemme galleggiante.»

E per quanto
fosse vero che il nome di una banca
poteva senza dubbio
stare inciso a sette cifre sulle onde,
Philip Lehman
pensò che forse
stare scritti su uno scafo
non era la sua massima ambizione.
Si accomodassero altri.

E non lo finanziò, il Titanic.

(Stefano Massini, Qualcosa sui Lehman, 2016)

Ero sicuro che il mio invito avrebbe avuto questa risposta. Vedo che continuate ad essermi fedeli e, dato che lo meritate, voglio svelarvi i piani dei vostri nemici. Prima di tutto dovrò provocare la vostra sorpresa con una comunicazione di grande importanza e di estremo interesse. Nel corso della generale ispezione da me compiuta ho accertato che nella parte della biblioteca occupata dal nemico sono stati effettuati indebiti spostamenti di volumi. Per non provocare uno scompiglio ancor maggiore nelle vostre file mi sono astenuto dal dare l’allarme. Respingo immediatamente ogni voce allarmistica e dichiaro qui, sotto giuramento, che non si lamentano perdite di alcun genere. lo mi rendo garante con la mia parola che questa assemblea è veramente plenaria e atta a deliberare. Noi siamo ancora in grado, come organismo integro e compatto, di predisporre la difesa, uno per tutti, tutti per uno. Perché ciò che non è ancora accaduto può accadere. Già l’alba di domani potrebbe aprire dei vuoti nelle nostre file.
lo so che cosa trama il nemico con questi spostamenti: vuole rendere più difficile il controllo delle nostre forze. Crede che noi non avremo mai il coraggio di annullare le sue conquiste nel territorio già occupato e pensa così, confidando nella nostra ignoranza della nuova situazione, di perpetrare, ancor prima della dichiarazione di guerra, rapimenti di cui noi non potremmo accorgerci. Siate sicuri che comincerà dai più nobili tra voi, da quelli per i quali può pretendere il riscatto più alto. Perché è evidente che il nemico non pensa affatto ad usare i libri rapiti contro i loro camerati. Sa bene che cosa ha probabilità di successo e che cosa non ne ha, e per condurre la guerra ha bisogno di denaro, denaro e ancora denaro. Per lui i trattati vigenti non sono che pezzi di carta.

(Elias Canetti, Die Blendung, trad. it. Auto da fé, 1935)

Il velo, o qualcosa che stringe, avvolge, cinge, un nastro, una fascia, una benda, è l’oggetto ultimo che incontriamo in Grecia.
Di là dal velo, non c’è altro.
Il velo è l’altro. È l’annuncio che l’esistente, da solo, non regge, che richiede almeno, perennemente, di essere coperto e scoperto,
apparire e sparire.
Ciò che si compie, l’iniziazione o le nozze o il sacrificio, esige un velo, appunto perché a compiersi è il perfetto, che sta per il tutto, e il tutto include il velo, quel sovrappiù che è la fragranza della cosa.

(Roberto Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, 1988)

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